giovedì 25 maggio 2017

Carnevale di Palermo 

L' ANTENATO DEI TEATRI SANTA CECILIA, DA SCARLATTI AL JAZZ


Per costruirlo, nel 1692, ci volle una colletta di 160 onze, per acquistarlo, tre secoli dopo, la cifra salì a un miliardo e seicentocinquanta milioni di lire. Ma non lo dite agli eredi di Baldassare Gonzales, un suonatore di cornetta che agli inizi di questa avventura si indebitò fino a perdere tutto. Il Real teatro Santa Cecilia è un romanzo che racconta quattro secoli di storia, fasti e miserie, terremoti e gran gala, melodramma e feste da ballo: basti dire che se alla fine del Seicento Alessandro Scarlatti suonò lì il suo clavicembalo, nel 1865 il sindaco Starrabba, marchese di Rudinì, per farlo uscire dalle secche della crisi vi organizzò il primo cafè chantant palermitano. Ma non solo: qualche anno dopo il teatro vivrà addirittura l' esperienza di museo delle cere. Adesso, invece, il "nonno" dei teatri palermitani diventa la Casa del jazz palermitano, grazie all' affidamento della Regione, proprietaria dell' immobile, al Brass Group. È l' atto finale di un recupero che sembrava impossibile fino a ventitré anni fa, era il 1987, quando il regista Beno Mazzone di colpo risvegliò il Santa Cecilia da un sonno che durava da ottant' anni. Ma bisogna tuffarsi nella nebbie di un lontanissimo 1692 per vedere nascere questo teatro sotto l' insegna dell' Unione dei musici, che già dieci anni prima avevano cominciato a tassarsi con un tarì a testa, e del viceré Giovanni Francesco Pacheco, duca di Uzeda e finanziatore dell' impresa. Viene fuori un teatro all' italiana, con una sala a ferro di cavallo capace di circa duecento posti a sedere più quattro ordini di palchi. Il sipario si alza il 28 agosto del 1693, dopo solo un anno dall' inizio dei lavori, con la rappresentazione della tragedia sacra "L' innocenza penitente" di Vincenzo Gattino, opera dedicata a Santa Rosalia con musiche di Ignazio Pulici. Come riporta il volume "Il teatro di prosa a Palermo" di Nino Aquilae Lino Piscopo, la sala era illuminata dal lampadario centrale e da cinquanta torce (la normativa anti incendio era ancora di là da venire) mentre ai palchi si accedeva attraverso due scale a chiocciola: il palco del viceré era tre volte più grande di tutti gli altri ed era decorato da uno scudo. In platea si sedeva su panche di legno e vi trovavano posto 242 spettatori. Nei pressi dell' ingresso principale c' era un vano destinato ai "bollittinari", i venditori di biglietti, e inoltre il teatro era fornito di sei fornelli affinché i cavalieri potessero farsi una cioccolata. Ma a questo punto subentra la maledizione che ha perseguitatoa lungo i teatri antichi palermitani, che di volta in volta si è manifestata sotto forma di incendio o di bombardamenti. Stavolta si tratta del terremoto che nel 1726 costringe il teatro a restare chiuso per circa dieci anni. Nel frattempo, però, non lontano dalla Fieravecchia, ha aperto i battenti un altro teatro musicale, il Santa Lucia, l' odierno teatro Bellini, che diventa subito un accanito concorrente del Santa Cecilia. Una concorrenza non sempre leale. Già perché se l' impresario del Santa Cecilia Andrea Toti cercò di bloccare il nuovo teatro chiedendo che il carnevale venisse festeggiato solo nella sua sala, adducendo addirittura che il nuovo arrivato era soggetto al rischio di un incendio (quasi una profezia), i rivali, all' inizio dell' Ottocento, riuscirono ad ottenere che il Santa Cecilia restasse chiuso ogni volta che veniva presentata una nuova opera. E così, nel 1798, dovette intervenire un Real Dispaccio a dirimere la lite, come spiega Gloria Martellucci ne "Il real teatro Bellini", stabilendo che i due spazi avevano pari dignità: «i due teatri vadano del pari e nessuno di essi vantar possa e spiegare sopra dell' altro preminenza». Il vero motivo della rivalità, manco a dirlo, era il denaro, ovvero il business dei veglioni di carnevale che riempiva le casse. Era il viceré,e poi il Luogotenente generale, a stabilire dove dovessero svolgersi le feste in maschera, in base a criteri di funzionalità, capienza e sicurezza. Nel 1787 col contributo di un altro viceré, Francesco D' Aquino, principe di Caramaico, viene restaurato e rinnovato sempre dall' Unione dei Musici. La spesa si aggira sui tremila scudi. Riapre il sipario il 2 giugno dello stesso anno con l' opera "Ariarate" dramma per musica del maestro Angelo Tarchi, compositore napoletano. Nel 1813 il catanese Giuseppe Conti crea un meccanismo che consente di abbassare il palcoscenico al livello della platea ampliando così lo spazio a disposizione per balli e feste, motori dell' economia del teatro. Ma la crisi è già iniziata, e come detto l' opera viene rimpiazzata dai lustrini del café chantant. L' ultimo sussulto è datato 1887 quando la nobiltà palermitana organizzò una serata di beneficenza a favore delle famiglie dei militari caduti in Eritrea nell' imboscata tesa dal ras Alula. I morti furono più di quattrocento. Il teatro viene illuminato sfarzosamente come negli anni d' oro, e la "crema" palermitana, tra cui Giulia Whitaker Scalia, si esibisce in canti.È una sera di madame ingioiellate, una passerella di aristocrazia che schiera i più bei nomi dell' alta società palermitana di fine Ottocento, ma, inevitabilmente, è il canto del cigno. Nel 1888 il teatro chiude: viene acquistato per trentamila lire dalla società Ferro & metalli che lo sventra, lo smonta pezzo per pezzo, lasciando solo le mura perimetrali, lo trasforma in deposita di ferramenta. Nel 1954 lo acquista la famiglia Guaiana che lo utilizza come emporio fino al 1978. E siamo ai giorni nostri, all' intuizione di Beno Mazzone che quella nobile carcassa di teatro possa ancora respirare. Intuizione condivisa da una ricerca del Dipartimento di storia e progetto nell' architettura, diretta da Nicola Giuliano Leone, secondo la quale il Santa Cecilia, così coem gli altri teatri storici palermitani, può tornare a funzionare. Mazzone, per tre sole tre sere, riaccende i riflettori sul Santa Cecilia mettendovi in scena "Bobok" di Dostoevskij, con Mario Scaccia. È la prova che Palermo può riconquistare il suo vecchio teatro. La Regione raccoglie la sfida e l' anno dopo lo acquista dai Guaiana per un miliardo e 650 milioni di lire. Si affacciano varie ipotesi sulla destinazione d' uso, tra cui quella, contestatissima, di museo delle carrozze. Alla fine vince il jazz, ma non solo. La nuova sede del Brass si aprirà a tutte le musiche contemporanee, ma anche ai registi palermitani "senza tetto", da Franco Maresco a Emma Dante. E perché no, al grande convitato di pietra, Alessandro Scarlatti, a cui sarà dedicato un festival, ripescando quello ideato anni fa da Roberto Pagano. Si completa così un percorso iniziato una quindicina d' anni fa, e che poco per volta ha visto le riaperture dei teatri Garibaldi, Massimo, Finocchiaro e Bellini. Rinascere dalle rovine è possibile.

MARIO DI CARO

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