giovedì 25 maggio 2017

Carnevale di Palermo 

C' ERA UNA VOLTA CARNEVALE 

Dall' epifania alla Quaresima, nell' intrigante Palermo del Settecento era sempre carnevale. La grande sarabanda era annunciata da ragazzi che correvano per la città suonando un corno, il capitano giustiziere proclamava l' inizio delle feste. Il marchese di Villabianca, uso a ben più nobili argomenti, elenca i giochi popolari con lo stile di un viaggiatore sbarcato in lontane contrade: dedica alla materia «serioso studio e faticosa applicazione», è solerte nell' indagare ogni gioco ed è ostacolato dall' ignoranza di giocatori sempre rumorosi, che non hanno idea della mole d' erudizione che minaccia di abbattersi sul loro passatempo. Il marchese si spazientisce, consegna alle pagine il suo disappunto. Ma l' elenco dei Giuochi volgari e popolareschi da lui compilato ci permette di intravedere l' ombra del carnevale di qualche secolo fa. Le maschere erano ufficialmente entrate in città nel 1616, quando il viceré duca di Ossuna aveva pubblicato un bando e ordinato che l' ultimo giorno di carnevale tutti dovessero travestirsi. Anche le carrozze avevano obbedito mascherandosi con «stravagantissime vesti», mentre dal Palazzo uscivano quattro carri colmi d' ogni ben di dio. Vino e carne fresca, formaggi e prosciutti scortati dalle maschere si fermavano sotto l' Arcivescovado, dove i carri venivano assaltati e saccheggiati dalla folla: era l' antenata della Cuccagna, che sino ad anni non troppo lontani era sempre allestita in ogni festa di paese. Nel Settecento al lunghissimo carnevale partecipavano i vari rioni cittadini, e una folla di improvvisati attori si esibiva in buffe pantomime. Tutti volevano recitare: lo stizzito Villabianca annota che i popolani si davano a folli spese per sembrare signori. Ma poi non resistevano, anche se messi in ghingheri facilmente i loro giochi perdevano l' innocenza scivolando nell' irrisione e nell' osceno. Si fingevano combattimenti, senza troppo rispetto si mettevano in burla antiche consuetudini signorili. La nobiliare giostra dell' anello, ad esempio- in origine un torneo dove i cavalieri cercavano di incoccare un anello, pendulo da un' asta - si trasformava nel gioco della papera. Dall' asta ora pendevano oche e altri poco nobili volatili, qualche volta vitelli e maiali; perduto ogni sembiante eroico l' assalto diventava ridicolo, alla fine le bestie venivano cucinate nelle osterie e innaffiate con fiumi di vino. Era stato proibito perché spesso finiva con morti e feriti, Villabianca lo cataloga fra quei «giochi guerrieri» buoni per dimostrare il naturale genio bellicoso della nazione siciliana: il marchese aveva ragione anche oltre le sue intenzioni, visto che in Sicilia la più scelta nobiltà esauriva i suoi spiriti guerrieri in torneie parate.E ci prendeva tanto gusto da suscitare commenti non sempre benevoli. «Per guerra è poco, per gioco è assai» aveva detto qualche forestiero alla vista di giostre e caroselli dove cavalieri armati, rivestiti da capo a piedi con pesanti armature, si davano dei gran colpi di lancia e ogni tanto persino ne morivano. Frai giochi più bellicosi c' era la «guerra dei lazzari», con due squadre di plebei armati di cartone colore acciaio che si affrontavano in campo aperto. Anche i duelli erano trasformati in beffa. Due popolani vestiti alla spagnola, preceduti da compari mascherati da donne, chiamavanoa raccolta gli spettatori al suono del tamburo. Una volta attorniati dagli spettatori, mettevano in ridicolo i duelli tanto diffusi fra i signori: fingevano d' ingelosirsi per le moine delle donne, cominciavano a combattere fra gli schiamazzi, finivano chiedendo un obolo da spendere subito in qualche bettola. Uno dei più «soddisfacenti e divertimentosi» giochi guerrieri era la battaglia delle arance, con frutti selvatici che venivano usati come proiettili da due squadre di combattenti. Ci si sfidava nei luoghi aperti, e alla «battaglia aranciale» partecipavano anche i nobili che rischiavano d' essere trattati come bersagli. Qualcosa di simile era accaduto al padre del nostro marchese: il quale per difendersi aveva sguainato la spada, ferendo però un soldato accorso in suo aiuto e per questo aveva dovuto pagargli a vita una pensione di nove onze l' anno. A parte i giochi guerrieri, quelli che a Palermo andavano per la maggiore erano i giochi d' azzardo. Ufficialmente proibiti ma da tutti praticati, vivevano la loro stagione di gloria nei giorni di carnevale. Uno dei più popolari era il «masculu o fimmina», vietato sin dal 1534 con apposito severissimo bando. Era una specie di "totonascituro" che scommetteva sul sesso dei futuri neonati, con tanto di allibratori: la casa della partoriente era circondata, in attesa del grido liberatorio "masculu" o "fimmina" capitava che si truccasse il risultato arrivando allo scambio dei neonati. La Palermo spensierata di metà Settecento sembra occupata solo a divertirsi, ogni strada è un palcoscenico. La lista delle maschere buffe è lunga, a cominciare dai "balla virticchi" che sembrano spuntare da ogni angolo: sono ragazzi, mascherati da pigmei dalla testa enorme. Le donne non vengono risparmiate. Le «mamme Lucie» sono plebei travestiti da donne pubbliche, avanzano preceduti dal suono dei tamburelli; la Tubiana, la Fasola e la Capona mettono in scena donne anziane, che ballano per strada fra i lazzi degli spettatori. Carnevale si conclude con l' impiccagione del Nannu a piazza Vigliena. Il corteo dei Bianchi - cioè maschere che fanno il verso alla nobile compagnia che conduceva al patibolo i condannati - scorta al supplizio un fantoccio, regolarmente impiccato. Carnevale era così terminato, ma era difficile resistere ai quaranta giorni di «malinconico luttuoso vivere» della Quaresima. Ed ecco il «serramento della vecchia», che si metteva in scena nella piazza di Ballarò. Impersonata da una donna anziana, la Quaresima era catturata e portata in giudizio su un carro tirato da buoi. Infine era giustiziata. Carnevale si concludeva nelle osterie che, scrive il marchese di Villabianca per una volta irriverente, «dei plebei son le gran chiese».

AMELIA CRISANTINO

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