venerdì 26 maggio 2017

Carnevale 

L’eterno conflitto tra Carnevale e Quaresima





Rivive in questi giorni, seppur in maniera limitata rispetto al passato, un archetipo della cultura europea: l’eterno conflitto tra Carnevale e Quaresima. Un topos descritto nel celebre dipinto di Pieter Bruegel del 1559, conservato nel Kunsthistorische Museum di Vienna, che mette in scena in maniera allegorica il combattimento tra il Carnevale (sulla sinistra del quadro) e la Quaresima (sulla destra) in una piazza.
Il Carnevale è rappresentato da un uomo grasso a cavallo di una botte, circondato da cittadini festanti e ubriachi, che sfida una donna magra e pallida, simbolo della Quaresima, la quale ha come lancia una pala con due aringhe. Nella parte sinistra il Carnevale ha come elemento architettonico simbolico l’osteria mentre sulla destra prevale la chiesa raffigurazione della Quaresima.
Carnevale, “Carnem levare” (eliminare la carne), nell’Europa medievale era il giorno prima della Quaresima, il mercoledì delle Ceneri, in cui si dava sfogo ai banchetti propri del “martedì grasso”. Una festa in realtà molto più antica che affonda le sue origini nell’epoca classica. In Grecia le dionisiache e a Roma i saturnali erano periodi nei quali si stravolgeva momentaneamente l’ordine sociale attraverso la dissolutezza e lo scherzo. Anche qui eterno conflitto tra caos e status quo.
Bruegel coglie una dinamica culturale dell’occidente ben descritta dal grande medievista Jacques Le Goff: il duello tra Carnevale e Quaresima è caratteristica principale della vita quotidiana degli uomini del Medioevo. Un contrasto che rimanda al rapporto dell’uomo europeo medievale con il corpo. Da una parte il grasso, dall’altra il magro. Il corpo nell’immaginario medievale è, scrive Le Goff,luogo cruciale di una delle tensioni dinamizzanti dell’Occidente”. Odiato e amato, il corpo è legato indissolubilmente all’anima. Il corpo è lo specchio dell’anima.
Oggi il conflitto tra Carnevale e Quaresima non è più lo stesso. Nelle società opulente occidentali sembra aver vinto Carnevale. L’idea dell’eccesso, in ogni ambito delle nostre vite, fa parte della quotidianità non più solo del martedì grasso. Questo atteggiamento nei confronti del cibo, l’attaccamento morboso ai beni di consumo e la viscerale ossessione del corpo (e dell’apparenza) sono in qualche modo legati al trionfo di quel capitalismo illimitato descritto dal filosofo Diego Fusaro.
E se nel Medioevo Carnevale e Quaresima si contendevano le sorti del corpo oggi prevale definitivamente “l’uomo di superficie” rappresentato dallo psichiatra Vittorino Andreoli. Uomini e donne, secondo lo studioso, che hanno fatto dell’apparenza fisica l’unica ragione di vita, sradicati e senza più sogni. Scrive Andreoli: “L’uomo attuale mi fa pensare ad un palloncino di plastica con dentro il vuoto. Non si può ridurre tutto alla propria cute e alle sue forme”.
L’uomo occidentale postmoderno ha dimenticato che la maschera di carnevale non si può tenere tutta la vita.

Mauro La Mantia




giovedì 25 maggio 2017

Carnevale di Termini Imerese

Giuseppe Navarra e il Carnevale di Termini Imerese



Termini Imerese 20 settembre 2012

Giuseppe Navarra (1893-1991) fu un uomo di “sapere” che amò profondamente la sua terra natia, Termini Imerese. Dopo aver frequentato nella propria Città gli studi di base, conseguì a Palermo la Laurea in Scienze Economiche e Commerciali, ottenendo la specializzazione in Scienze Coloniali. In seguito a Roma, presso il Ministero dell’Educazione Nazionale, ottenne il Diploma in Lingua Inglese. Nel periodo della sua gioventù (avvalendosi del titolo di Consulente in Diritto Commerciale e Scambi Internazionali) ebbe modo di trasferirsi all’estero per approfondire gli studi di Scienze Economiche presso l’Università di Duquesne e Pittsburgh (contee di Allegheny nello stato della Pennsylvania) e proprio negli “States” vi rimase a lungo esercitando la sua professione. I suoi viaggi di lavoro lo portarono a visitare anche altri Stati: Canada, Messico, Egitto, Libano, Giordania e i paesi europei come Francia, Inghilterra e Spagna. Nel corso della Prima Guerra Mondiale a Washington ricoprì il ruolo di Segretario dell’Ambasciata d’Italia e di Segretario della Commissione di Approvvigionamento della Marina Italiana. 
Successivamente rivestì l’incarico di Gerente del Dipartimento estero della “Midland Saving & Trust Company”.  Ebbe un amore sviscerato per l’archeologia e prima che ritornasse nella sua Termini Imerese, partecipò a diverse Missioni archeologiche in Messico (Yucatan) e in Egitto (Luxor). A Termini Imerese si occupò della tutela dei numerosissimi Beni Culturali e approfondì le sue conoscenze nel campo del folclore e del dialetto termitano. Fu docente di lingua Inglese nel liceo classico “Gregorio Ugdulena” e divenne Ispettore Onorario alle Antichità delle province di Palermo e Trapani, Ispettore Onorario ai monumenti della Sicilia Occidentale, Membro dell’Archeoclub di Roma e Membro del Consiglio Internazionale dei monumenti e siti di Parigi. Nel 1963 durante gli scavi esplorativi del sito archeologico di Himera, collaborò con l’Istituto di Archeologia dell’Università di Palermo. Il Navarra inoltre per diversi anni su incarico della Curia Arcivescovile di Palermo studiò sistematicamente la Chiesa di S. Giacomo Apostolo Maggior antica Chiesa Madre di Termini Imerese. 


All’interno di essa scoprì degli affreschi che erano stati poi intonacati. Le sue particolari doti umane lo portarono a rivestire la carica di Presidente dell’Istituto filantropico Opera Pia “Inguaggiato” e fu Socio fondatore della “San Vincenzo De Paoli” a Termini Imerese. Scrittore versatile fu corrispondente del Giornale di Sicilia e collaboratore delle riviste “Europeo” e “Palermo”. A lui si devono numerosi articoli di archeologia, storia, finanza e di dialettologia. Ebbe numerosi riconoscimenti onorifici: nel 1959 medaglia d’argento come “Benemerito della Scuola, della Cultura e dell’Arte”, nel 1963 Cavaliere nell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. Il suo nome è stato inserito nel “Dictionary of international biography 1976” edito in Inghilterra, a Cambridge. Nel 1991 dal Comune di Termini Imerese veniva pubblicata la sua opera “Locuzioni e modi proverbiali nella parlata di Termini Imerese”. 


Nel 1996, a cura del prof. Peter Dawson, docente di Lingua e Letteratura inglese all’Università degli Studi di Palermo e della prof.ssa Francesca Orestano, docente di Lingua e Letteratura inglese e Letteratura anglo-americana all’Università di Milano, veniva pubblicato il libro di Giuseppe Navarra, “Il dizionarietto di un Italiano in America”. E nel 2000 a nove anni dalla sua scomparsa era dato alle stampe “Termini com’era” a cura dell’antropologo prof. Salvatore D'Onofrio, docente nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo e membro del laboratorio di Antropologia Sociale del Collège de France. Il nome di Giuseppe Navarra è anche legato al Carnevale di Termini Imerese. E’ interessante riportare  quanto il prof. Giuseppe Navarra scrive sul Carnevale Termitano nel suo libro "Termini com'era" GASM, 352 pp. 2000, nel capitolo “Le feste calendariali” alla voce “Carnalivari”.  E’ una testimonianza del modo di vivere a Termini Imerese nel dopoguerra, in occasione della festa del Carnevale, un’esistenza piena di stenti per le condizioni di vita e dall’alta percentuale di povertà ma senza dubbio un modo di vivere più genuino e privo di fronzoli. A quell’epoca ci si accontentava di poco per divertirsi. Ecco quanto scrisse il Navarra.

«Da noi il Carnevale non finiva più. Cominciava il giorno dopo l’Epifania e terminava col Martedì grasso. Il giorno stesso dell’Epifania, a Termini Bassa si sentiva il cupo suono della brogna, quel tritone che una volta si pescava occasionalmente nel nostro mare, ed i monelli andavano gridando per le strade: “Doppu li ti Rrè, Olè, Olè” (N.d.r. dopo i tre Re Olè Olè). Erano già venuti, e continuavano a venire i venditori di tammureddi (N.d.r. piccoli tamburi), cerchietti di legno di tutte le dimensioni con un lato coperto da una membrana, e con incorporatevi dei pezzetti di latta che vibravano quando lo strumento veniva agitato o percosso. L’indomani dell’Epifania i monelli già uscivano per strade, con in faccia una maschera e gridando: “Ih, eh, Carnalivari iè, Ih, eh, Carnalivari iè” (N.d.r. Ih, eh, Carnevale è, Ih, eh, Carnevale è). La primavera che si avvicinava dava a tutti un senso di euforia, e nasceva in ognuno il desiderio di svagarsi e distrarsi; mancava la radio e la televisione, mancava il cinematografo e si era così pervasi da un bisogno di allegria e spensieratezza. Per prima cosa spuntava il calài. Si trattava di un vistoso pezzo di carta, o di stoffa, assicurata ad uno spillo ridotto ad uncino, che si attaccava destramente di soppiatto, a ridosso del vestito, scialle o mantello di un povero cittadino che, ignaro, tranquillamente passeggiava per la via. 
La vista di una persona che, così conciata, camminava per i fatti suoi, destava molta ilarità, finchè le risatine, le occhiate significative e il cannalivari iè gridato da qualche monello non avvertiva il merlo che gli era stato giocato un tiro. I mascarati (N.d.r. persone che indossavano la maschera) a volte a frotte, si vedevano ogni giorno in ogni parte della città, ed i giovedì e le domeniche, quando si ballava in casa di privati, avevano facoltà di partecipare ai balli, ma dovevano prima farsi riconoscere, togliendosi la maschera. I giovedì di carnevale prendevano i nomi di “iòviri ddi li cummari”, “iòviri ddi li parenti”, “iòviri zzuppiddu” e “ggioveddì rassu” (N.d.r. giovedì delle comari, giovedì dei parenti, giovedì del diavolo e giovedì grasso) ed in ognuno di questi giorni la baldoria aumentava e la cucina era più doviziosa non mancando mai la salsiccia, cotenna e carne di maiale, a costo, magari, di fare qualche debituccio. Il “ggiveddì rassu”, specialmente, le maschere ed i domino (n.d.R travestimento di carnevale composto da un ampio mantello con cappuccio) erano numerosissimi, e le case private in cui si ballava a suo di fisarmonica, di mandolino e di friscalettu (N.d.r. strumento musicale a fiato simile al flauto) non si contavano più. Qualche volta compariva anche il mariolu (scacciapensieri). Nell’ultima domenica di carnevale l’animazione cresceva e l’atmosfera gioiosa pervadeva tutti, ma il gran giorno, “martedì rassu” si scatenava la baraonda. Maschere, frastuono, petardi trombe e trombette, brogne, getti di cipria.”…” Ma ritorniamo al martedì grasso. 
Salvo qualche disgraziato, e ce n’erano, le provviste erano state abbondanti, e a mezzogiorno il pasto era stato fuori dall’ordinario, perché si era lasciato allo stomaco ampio spazio per il baccanale della sera. Imperava la carne di maiale che era presente nelle sue varietà, ed i giardinieri avevano scannato il maiale che avevano allevato nel loro giardino. Non si poteva in nessun modo rinunziare alla pasta fatta in casa, e la madre di famiglia aveva già preparato i maccheroni che venivano stesi su canne ad asciugare. Annotando avveniva un gran concorso di popolo per il rogo che attendeva il povero nannu, un fantoccio appeso ad una canna, dietro il quale procedeva lentamente la calca che gridava con voce lamentevole: “nannu miò”, “nannu miò (N.d.r. Nonno mio, Nonno mio). Una persona con voce stentorea, tra le grida di ilarità, leggeva quindi il testamento del morituro, in forza del quale persone conosciute da tutti ricevevano in eredità il bastone, l’orologio, la caiella (soprabito), le pantofole, la pipa, l’orinale ecc. Finita la lettura il povero nannu era dato alle fiamme come un malfattore, tra le grida ed i lamenti dei presenti, che erano assecondati dalla fasuledda  della musica (N.d.R. componimento che viene ballato in cerchi seguendo la velocità del ritmo che va alternandosi) Ed ora tutti i pensieri erano rivolti alle tante cose da ingozzare. 
Un gran piatto di maccheroni allo stufato di maiale, condito con ricotta: cotenna, mollame, salsiccia stufata e arrostita, insalata, olive nere e bianche alle quali seguivano arance e finocchi. Chiudeva la festa il principe dei dolci, il cannolo, che allora aveva una lunghezza e un diametro considerevoli, seguito da noci e mandorle abbrustolite. Che aiutavano a mandare giù rispettabili quantità di vino, a quei tempi ricavato dall’uva, per “ccomu è bberu Ddiu” (n.d.R come è vero Dio “vino verace”) come si diceva. Se i fumi dell’alcol non avevano ancora ottenebrato le menti, potevano seguire scherzi, facezie e indovinelli, mentre i più giovani ballavano la tarantella. Fino a notte alta si giocava a tombola o a ssetti e mmenzu (N.d.r. gioco del sette e mezzo) La parola Carnalivari si riferisce a persona inetta, goffa, maldestra e superficiale».



Ancora oggi il prof. Navarra è ricordato per la sua erudizione e per il suo spirito acuto nell’osservare la realtà cittadina della “Termini com’era”.

Si ringrazia per la foto del prof. Giuseppe Navarra, la prof. Antonella Tripi e per le informazioni biografiche la prof. Maria Teresa Castiglione Navarra. 
Inoltre un grazie particolare al sig. Antonino Surdi Chiappone per la concessione delle foto del Carnevale di Termini Imerese nel dopoguerra.

Giuseppe Longo

da il Giornale del Mediterraneo (www.gdmed.it)

Carnevale di Termini Imerese 

Intervista al prof. Luigi Ricotta sul Carnevale di Termini Imerese




Termini Imerese Lunedì 17 Settembre 2012

Il prof. Luigi Ricotta è da annoverare nelle memorie storiche del Carnevale di Termini Imerese (PA) come il primo studioso a rendere noto in modo scientifico la storia del Carnevale Termitano. La Tesi di Laurea inedita, reca il titolo “Aspetti del Folklore di Termini Imerese” e fu discussa dal Ricotta sotto la sapiente guida del Relatore prof. Giuseppe Cocchiara, presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Palermo nell’anno accademico 1956-1957. La Tesi raccoglie in una particolare sezione i punti fondamentali che caratterizzano l’importante manifestazione carnascialesca termitana. A rendere più rilevante questo studio è stata la guida del suo relatore, il noto antropologo ed etnologo italiano Giuseppe Cocchiara (1904-1965) discepolo di Giuseppe Pitrè (1841-1916) che fu il creatore della scienza sul folclore Italiano, in particolar modo quello siciliano. Luigi Ricotta è anche noto nel campo delle ricerche sul folclore per essere stato l’ideatore del “Censimento delle tradizioni orali” attraverso il “Metodo capillare” per la raccolta delle tradizioni orali, canti e racconti popolari siciliani da inserire in un “Archivio delle tradizioni orali”. Tale metodologia di ricerca, realizzata dopo un primo esperimento nel 1969 e messo a punto l’anno successivo con la collaborazione degli insegnanti di Lettere della Scuola Media “Cocchiara” di Borgo Nuovo (PA) e dai loro alunni ebbe un largo e positivo consenso da parte di esimi studiosi quali: Paolo Toschi, Vittorio Santoli, Giorgio Nataletti, Giovan Battista Bronzini, Carmelina Naselli e Giorgio Piccitto. Al Prof. Luigi Ricotta rivolgiamo alcune domande sulla storia del Carnevale Termitano.  

Professore Ricotta, innanzitutto grazie per averci concesso l’intervista, e non possiamo che parlare di Carnevale giacché Lei è stato il “Decano” della storia del Carnevale di Termini Imerese descrivendola scientificamente in una sezione della sua Tesi di Laurea dal titolo “Aspetti del Folklore di Termini Imerese”, Tesi di Laurea depositata presso la Biblioteca “Liciniana” della stessa città a cui numerosi studiosi hanno attinto per le loro ricerche. Le chiediamo per prima cosa che ricordi ha della sua infanzia e adolescenza intorno a questa storica manifestazione? E inoltre se c’è un’annata del Carnevale Termitano che ricorda particolarmente?

Io sono nato a Termini Imerese nel 1934. Tutto quello che ho scritto e conosciuto del Carnevale di Termini nella mia adolescenza, riguarda gli anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, cioè dal 1944 in poi. Nell’anno scolastico 1942-1943 le scuole furono chiuse già nel primo trimestre per i fatti di guerra: nel luglio del 1943 conobbi i bombardamenti di Termini, le navi affondate, le case distrutte, i morti sotto le macerie e, per due volte, rimasi vivo per miracolo. Non ricordo esattamente in quale anno dopo la guerra ricominciarono le sfilate dei carri allegorici col “Nannu e la Nanna”. Una cosa è certa: che la fine della guerra portò negli animi un vivo desiderio di dimenticare le tristezze della guerra e di riappropriarsi della gioia di vivere. Pertanto, dopo l’Epifania del 1944 tornarono a vedersi per le strade ragazzi mascherati, fuareddi, assicutafimmini (n.d.R. petardi), scherzi con tante risate, qualche carretto con mascherati sopra, ma le sfilate con carri allegorici ricominciarono alcuni anni dopo. Anche perché i locali della Caserma La Masa, dove si costruivano i carri, furono usati, ancora per altri anni, come campo profughi.


Qual è l’origine del termine Carnevale?

L’origine del termine Carnevale deriva da carne levare (n.d.R. togliere la carne) perché dopo questo periodo di allegria comincia l’astinenza penitenziale dalle carni per l’inizio della Quaresima.

Ci parli dei personaggi basilari del Carnevale di Termini Imerese “U Nannu” (nonno) e a Nanna (Nonna). Chi sono questi due simpatici protagonisti? E cosa rappresentano nella simbologia carnevalesca questi vegliardi personaggi con la loro mimica, le loro espressioni gestuali e nel loro tipico abbigliamento?

Il Nannu è il personaggio fondamentale, colui che in Sicilia personifica il Carnevale stesso e che, nel significato originario, non è altro che l’anno che muore (anticamente, infatti, coincideva col Capodanno). La sua morte, a dire del folclorista Paolo Toschi, “intende eliminare il vecchio e il male, tutto ciò che nell’anno che finisce in quel momento e in quel modo, è rimasto senza forza produttiva se si è caricato di malanni e di colpe”. Ecco perché in Sicilia esso è personificato in un vecchio: il Nannu. Infatti, citando ancora il Toschi, “nella mentalità primitiva e popolare opera l’idea che si può eliminare il male trasferendolo sopra un oggetto, sopra una bestia, sopra una persona umana, e anzi in essa concentrando tutti i mali della comunità; così basta sopprimere o allontanare questo qualcuno o qualcosa su cui si sono accumulati i mali di tutti, e l’intero popolo diventa puro e sano”. Il vecchio “Nonno che viene bruciato è dunque quello che per i Romani era Veturio Mamurio, il Re dei Saturnali, il vecchio dio dei raccolti che veniva scacciato perché ormai non più valido per la crescita dei nuovi, ed è il capro espiatorio, l’agnus qui tollit peccata (n.d.R. l’agnello che toglie i peccati) del piccolo mondo paesano”.

Che cosa rappresenta simbolicamente la figura della Nanna? Lei pensa che la figura della Nanna sia un prodotto locale che riguarda soltanto la città di Termini Imerese?

Accanto al personaggio del Nannu troviamo la Nanna. Essa non rappresenta la Quaresima, ma la moglie del Nannu, quindi nessun contrasto avviene a Termini tra questi due personaggi, che, anzi, vanno assai bene d’accordo e si fanno anche carezze.



Professore, la figura del Nannu è esclusiva del Carnevale termitano?

La figura del Nannu, altrove viene impersonificata in un orso, come nel Friuli, in un tacchino, come nel Monferrato, ed anche in un semplice fascio di paglia, come in alcuni paesi della Lombardia.

L’etnologo Giuseppe Pitrè (1841-1916) ritiene che la figura della Nanna sia stata aggiunta in tempi successivi a quella più antica del Nannu; mentre il folclorista Paolo Toschi (1893-1974) sostiene che la figura femminile della Nanna non è recente ed è largamente diffusa negli altri Carnevali. Qual è la sua opinione?

L’etnologo Giuseppe Pitrè, considera la maschera della Nanna come un fatto isolato, capriccioso, non tradizionale, una recente “creazione di cattivo gusto che in Sicilia non ha nessun fondamento”. Non è di questo parere il folclorista Paolo Toschi, il quale dimostra anzitutto che la presenza di un personaggio femminile accanto al Carnevale è diffusa su vasta area, e poi conclude che “moglie, antagonista o alter ego femminile del Carnevale, la Vecchia ha importanza non meno del Carnevale stesso”. A tale scopo il Toschi, fra le molteplici forme in cui questa Vecchia è rappresentata nelle varie Regioni, distingue due tipi fondamentali: la Vecchia magra e allampanata, che s’identifica con la Quaresima, e quella gigantesca, adorna e ripiena di frutta e di salsicce, che ha quindi un significato propiziatorio di fecondità e di abbondanza, accostandosi alla figura della Befana. In questi due tipi fondamentali il Toschi scorge i due principali aspetti del rito: quello di eliminazione del male, col segnare o bruciare il fantoccio, e quella di propiziazione della fecondità e dell’abbondanza, con la distribuzione di arance, nocciole, confetti, monete ecc.; ma il popolo non bada a queste sottigliezze. Per esso la Nanna è un personaggio simpatico non meno del suo rubicondo marito. Del resto il Carnevale, nella sua continua evoluzione attraverso il tempo, ha perduto del tutto il significato di un rito propiziatorio e null’altro vuol essere se non una lieta parentesi di spensieratezza nel fluire monotono dell’esistenza quotidiana. Ma dell’antico Carnevale, oltre alle maschere, resta ancora il senso di pazza allegria, lo scherzo e, soprattutto, la satira, nella quale consiste, secondo me, uno dei significati più positivi del Carnevale. La società ride di se stessa mediante le maschere, prende in giro se stessa con gli scherzi, infine confessa le proprie colpe e manchevolezze, quando lo fa, mediante il testamento. Il Testamento, a mio giudizio, ha un valore fondamentale nel Carnevale, alimenta il gusto e le capacità creative della poesia satirica in vernacolo, castigat ridendo mores (n.d.R. corregge i costumi ridendo) e, pungolando vizi e manchevolezze, contribuisce a formare un costume democratico. E’ bene, pertanto, che se ne continui la tradizione e che si conservino i testi nelle biblioteche.



Lei nella sua Tesi di Laurea parla di quattro elementi essenziali che compongono il Carnevale di Termini Imerese, può descriverceli?

Esaminando il Carnevale di Termini quale ci si presenta nei suoi aspetti tradizionali, notiamo che quattro sono gli elementi essenziali che lo compongono: il Nannu, la sfilata delle maschere, il testamento del Nannu, la morte del Nannu per bruciamento. Da tali elementi possiamo dedurre l’importanza di questo Carnevale, non tanto per l’apparato scenografico che lo caratterizza, quanto per il contributo che esso ancora può dare agli studiosi del Carnevale italiano. Infatti, tutti e quattro gli elementi suddetti, oltre a quelli secondari, servono a testimoniare ancor meglio il carattere originario del Carnevale il quale, come hanno messo in luce gli antropologi James Frazer (1854-1941) e Arnold van Gennep (1873-1957), il folclorista Paolo Toschi e vari altri studiosi, risale ad antichissimi riti pagani di rinnovamento.   

Circa le origini delle maschere, l’unica cosa certa e che sono state acquistate dal compianto Cav. Agostino La Rocca e attualmente custodite dagli eredi, escludendo gli apologhi che circolano in merito a queste due maschere, Lei ha delle notizie attendibili riguardo la loro origine?

Quando ho fatto la mia Tesi molti documenti sul Carnevale di Termini (alcuni Testamenti del Nannu in versi vernacoli e le stesse maschere del Nannu e della Nanna che ho potuto fotografare in Corso Vittorio Amedeo poste su un tavolinetto) mi sono stati messi a disposizione dal signor Ignazio Casamento che li teneva a casa sua. Quanto all’origine di queste due maschere non ho notizie certe; però se il prof. Giuseppe Navarra, molto più anziano di me, affermava che sono state costruite da un falegname di Termini, che le ha tenute esposte nel suo laboratorio di falegnameria nel Corso Umberto e Margherita, è probabile che le cose stiano proprio così.



Nel libro del Prof. Giuseppe Navarra “Termini com’era” editrice GASM, 2000, riguardo al Carnevale di Termini Imerese si parla dei giorni antecedenti alla festa, i famosi quattro Giovedì, l’ultima Domenica e il gran finale del Martedì grasso. Ci dia una descrizione di quegli anni.

Io non ho letto il libro “Termini com’era" del prof. Giuseppe Navarra, mio carissimo professore d’inglese, se riesco a trovarlo, lo leggerò volentieri. Pertanto non so nulla dei quattro giovedì precedenti il Carnevale. Quando nel 1956 ho fatto la mia tesi nessuno degli anziani che ho intervistato, me ne aveva parlato. Erano usanze già in disuso. Ne ho avuta notizia solo leggendo l’articolo di Franco Amodeo sul Giornale di Sicilia del 1988, che li riporta citando i ricordi del prof. Navarra. Comunque ha fatto bene il prof. Navarra a scrivere i suoi ricordi delle antiche tradizioni pre-carnevalesche di anteguerra a Termini, arricchendo quanto io non avevo saputo. E ha fatto bene l’amico Franco Amodeo a parlarne nel suo articolo.

Professore, un’ultima domanda, prima di questa intervista ha pubblicato qualcosa in tema di Carnevale, sul folklore siciliano oppure su altri temi?

Sul Carnevale di Termini, oltre a quanto scritto sulla mia Tesi, non ho pubblicato più nulla. Sul folklore siciliano e su altri temi ho scritto molti articoli e libri. Altri ne sto scrivendo.

Giuseppe Longo


Per le foto sul Carnevale di Termini Imerese nel dopoguerra si ringrazia il sig. Antonino Surdi Chiappone.

Inoltre si ringrazia il prof. Luigi Ricotta per averci concesso la foto che lo ritrae nel giorno della sua Laurea mentre espone la Tesi davanti al suo relatore prof. Giuseppe Cocchiara.



Carnevale di Termini Imerese 

Vincenzo Favara: l’ironia e l’intraprendenza a servizio della Pro Loco di Termini Imerese




Termini Imerese Martedì 26 Giugno 2012

Ho avuto la fortuna di conoscere il Cav. Vincenzo Favara (nella foto) (1938-2005) nella sua fase di grande exploit, prima del progressivo ritiro dal “palcoscenico” della Pro Loco Termini Imerese per motivi di salute. Vincenzo Favara era un personaggio colto, eclettico, pronto alla battuta e dotato da uno stile espressivo del tutto personale. Fece parte per diversi anni del Consiglio di Amministrazione della locale Pro Termini, rivestendone ininterrottamente la carica di Presidente dal 1988 al 1994. In questi anni seppe governarla non solo formulando discorsi, ma anche con l’ausilio di un notevole numero di missive che inviava alle amministrazioni, alle personalità politiche, agli enti e alle associazioni al fine di far conoscere i disagi in cui versava la Città, inoltre per esprimere solidarietà di ogni sorta o inviare auguri di ogni genere. 
Era un grafomane nato o meglio come lui stesso mi proferiva “sono logorroico, non posso farci nulla è un fattore congenito”. L’oggetto delle missive era tra le più varie: dalla sistemazione area a verde nelle principali arterie della Città di Termini, alla segnalazione di cartelloni abusivi, dall’istituzione di Comitati Organizzatori per il Carnevale, dai progetti di valorizzazione della Città, dalle lettere di protesta per la deturpazione di certi scorci panoramici, insomma tutto quanto un’associazione attraverso il suo statuto potesse svolgere; per non parlare poi dei comunicati che a noi soci pervenivano. Una vera e propria mitragliatrice in azione i cui proiettili non erano altro che penna e carta. Costatando che a quell’epoca non era diffusa la rete internet e che non erano ancora evoluti i social network, lascio a Voi immaginare cosa sarebbe stato capace di fare oggi il Presidente Favara con l’uso della rete telematica!. Io a quell’epoca non ci scherzavo neanche, ero un vero fermento soprattutto dopo la fresca nomina a socio della Pro Loco e tengo a precisarlo “senza mai volerne assumerne incarichi particolari”.  
All’interno dei locali della Pro Termini (ricavati da quello che rimane degli ambienti absidali dell’ex chiesa di S. Francesco d’Assisi XIII sec.) iniziarono le mie conversazioni con il Cav. Favara su quanti mirabolanti programmi si potevano realizzare in seno all’Associazione e lui ascoltava interessato e per nulla infastidito dalle freschezze delle mie idee. Tra queste sorprendenti progettualità che mi balenarono in mente, due raggiunsero il traguardo, ovviamente grazie all’impegno impugnato dallo stesso Favara. In breve tempo furono realizzate: il Punto Touring allo scopo di far conosce attraverso l’autorevole rivista ufficiale del Touring Club Italiano “Qui Touring”, le potenzialità del nostro territorio e in particolare la città di Termini Imerese. L’interessante proposta consisteva nel far si che le Pro Loco d’Italia interagissero con TCI istituendo per l’appunto un luogo d’incontro all’interno delle loro sedi per promuovere le iniziative che il TCI esponeva. Il connubio col TCI portava inoltre la Pro Loco a fruire della rivista per approfondire argomenti storici, artistici, folkloristici. 
La seconda iniziativa prevedeva invece la richiesta della Pro Loco all’Ente I.A.L. (Istituto Addestramento Lavoratori) di Termini Imerese di istituire il “Corso per Addetto alla lavorazione della cartapesta” una vera novità in questo settore, che permetteva di conseguire una qualifica professionale, riconosciuta giuridicamente attraverso un periodo di tirocinio e un esame finale. A tal proposito ho il piacere di riportare quanto scrisse a tal riguardo il Cav. Favara al direttore dell’Ente I.A.L. di quel periodo il geom. Giuseppe Graziano: 

Spettabile        I.A.L. CISL

Prot. 60/VF/vf
Oggetto: Richiesta istituzione CORSO per ADDETTO ALLA LAVORAZIONE DELLA CARTAPESTA

Premessa
La nostra Città vanta una, possiamo ben dire, quasi secolare tradizione circa, non solo l’organizzazione di sfilate di carri carnascialeschi, ma principalmente della costruzione degli stessi.
Da decenni una folta schiera di abili modellatori della cartapesta hanno realizzato dei capolavori che poi sono sfilati lungo le vie della nostra Città e sono poi andati ad abbellire, in anni successivi, anche altre sfilate nei paesi viciniori del comprensorio, creando i presupposti di un tentativo in industrializzazione del nostro Carnevale stesso.

Considerazioni
Considerato che, per un naturale avvicendamento della vita, sia anche per interessi più remunerativi in altri campi di lavoro, parecchie defezioni dovute a cause diverse, non ultima l’età matura, siano avvenute, si ritiene opportuno non far morire questa nostra tradizione no solo di organizzare le sfilate carnascialesche, ma principalmente di non annullare del tutto questa categoria benemerita di operatori specifici nella realizzazione di manufatti in cartapesta.
Riteniamo, quindi, sia opportuno considerare non molto peregrina l’idea di tentare di andare a formare delle generazioni di giovani che,avendone la volontà, possano inserirsi a pieno titolo in questa, al momento, ristretta cerchia di operatori specifici del settore della lavorazione della cartapesta.
E dobbiamo, anche, considerare che a questi giovani non si offrirebbe solo l’opportunità di costruire dei manufatti in cartapesta finalizzati solo ed esclusivamente al Carnevale, ma si offrirebbe loro delle valide prospettive di lavoro come l’inserimento in fabbriche che lavorano realizzando giocattoli in cartapesta od anche si schiuderebbe la possibilità, in un tempo non molto futuro, potenziandosi ed industrializzandosi il nostro Carnevale, a delle valide e durature opportunità di lavoro tipo, per intenderci Viareggio.

Conclusioni
Alla luce di quando sopra esposto, si fanno voti a che Codesto Spettabile Istituto voglia valutare l’opportunità di istituire un corso specifico per la preparazione e formazione di addetti alla lavorazione della cartapesta, inserendo nel programma di studio non solo e principalmente la manualità operativa della modellatura della creta e del ferro per la costruzione dei calchi attraverso i quali realizzare  la cartapesta, ma anche dei corsi propedeutici di disegno, di vignettistica, di storia del folklore e dei costumi, della tecnica dei movimenti e simili legati alla finalità di formare dei giovani che abbiano così un bagaglio sia tecnico che culturale atto a poterli qualificare come elementi validi ed esperti nel settore specifico.
Scusandoci per la lunghezza della lettera, ma era, a nostro avviso, necessaria, certi che non mancherete di valutare quanto in essa espostoVi, ringraziandoVi per tutto quanto vorrete fare,non  per noi, ma per la Comunità intera, ci è gradita l’occasione per porgerVi distinti saluti.

                                                                           Il PRESIDENTE
                                                                      (Cav. VincenzoFavara)


Questa fu la mia ultima collaborazione da socio della Pro Termini con il Cav. Vincenzo Favara. Le due iniziative precitate fortemente volute da entrambi, continuarono a svolgersi ancora per alcuni anni, in seguito, per motivi che ancora oggi non riesco a interpretare, caddero tutte nell’oblio. In realtà in virtù di un avvicendamento delle cariche sociali all’interno della locale Pro Loco, avvennero variazioni di tendenza e pertanto, cambiarono gli uomini e finirono nel dimenticatoio alcune idee. 

 Si ringrazia per la foto la moglie Isabella Corso


Giuseppe Longo



Carnevale di Termini Imerese 

Vito Salvo una vita spesa per la "sua" Termini Imerese




Termini Imerese Venerdì 01 Giugno 2012

Il Vice Console di Spagna Cav. Vito Salvo (1896-1983) fu insieme al prof. Salvatore Pedone (Direttore del Qundicinale Eurako) il fondatore dell’Associazione locale“Pro Termini”. Vito  Salvo, compì gli studi primari al Collegio Pennisi di Acireale, in seguito dopo aver frequentato l’Istituto Tecnico di Termini Imerese, conseguì il diploma di Ragioneria nella città di Palermo. Con lo scoppio della Grande Guerra fu combattente ricoprendo la qualifica di “Autiere” col grado di Caporale. Conclusosi il primo conflitto mondiale, ritornò in patria e insieme al padre Giuseppe, intraprese le attività commerciali d’import-export e della produzione di saponi (Saponificio Salvo). D’indole intraprendente e dotato di un grande amore per la propria Città, fonda insieme al già citato prof. Pedone, l’Associazione “Pro Termini” con lo scopo di rilanciare il turismo cittadino. La neonata Associazione si occupò soprattutto di promuovere il Carnevale Termitano e inoltre porre all’attenzione dei turisti i Bagni Termali del Grand Hotel di Termini Imerese, tanto decantati dal poeta greco Pindaro nella XII olimpica, in onore di Ergoteles di Imera.  Nel 1923 fonda insieme al Pedone che ne fu il Direttore Responsabile, il periodico “Eurako”. Il foglio a cadenza quindicinale rimase in vita sino al 1954 circa interessandosi del settore Artistico, Commerciale e Turistico in particolar modo della Città Imerese. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale Vito Salvo incoraggiò lo sviluppo commerciale del Porto di Termini Imerese e fu uno dei fautori della zona industriale. Dal 1933 fino al 1960 circa ricoprirà la carica di Vice Console di Spagna ereditata dallo zio defunto Giuseppe La Scola. La carica diplomatica di Vito Salvo si ricollega anche all’importanza del polo marittimo di Termini Imerese e il conseguente notevole flusso di navi battente bandiera spagnola.  A partire dal 1960 circa una volta cessata l’attività industriale saponifera di famiglia si dedicherà totalmente all’Associazione “Pro Termini”. Dopo una vista spesa nel tentativo di rilancio turistico e commerciale della Città di Termini, morirà tragicamente il 27 gennaio del 1983. Questa figura di uomo innamorato della propria terra natia merita certamente di essere tramandata ai posteri e non finire nel dimenticatoio com’è avvenuto fino ad ora. L’Amministrazione Comunale potrebbe intitolare una via ovvero dedicare all’illustre scomparso la sede dell’attuale Associazione Turistica Pro Termini.

Giuseppe Longo



Carnevale di Termini Imerese 

Che Carnevale, quello del 1963! Memorie, nostalgie e rimpianti



Termini Imerese Mercoledì 30 Maggio 2012

Il Carnevale del 1963 è ricordato negli annali della Città di Termini Imerese come la più bella manifestazione carnascialesca della Sicilia Occidentale, ricevendo un plauso particolare dall’Ente Provinciale per il Turismo di Palermo che si espresse positivamente al riguardo (e personalmente aggiungo che a quei tempi non era una novità distinguersi nell’arte della cartapesta era naturale per i costruttori dei carri convogliare l’estro fantasioso e la certosina ricercatezza dei particolari costruttivi, tali da rendere fastose le sfilate carnascialesche: d’altronde dopo le parentesi belliche si andava via via costruendo quel clima ilare e giocoso che si era istintivamente perduto, e questo grazie agli organizzatori, ai molti volontari e ai cartapestai locali). Le scenografiche manifestazioni del Carnevale di Termini Imerese erano già conosciute dall’Ente Provinciale del Turismo, tanto da definire la kermesse “come la sola preminente della Sicilia Occidentale”. Il merito per la buona riuscita di queste manifestazioni si deve, grazie alla locale Associazione Pro Loco di quel tempo, tramite il valido sostegno del Comune di Termini Imerese. Ad amplificare la portata di siffatto evento termitano parteciparono anche le testate giornalistiche siciliane e un certo numero di quotidiani romani che in quell’anno posero l’attenzione a questa specifica edizione. La singolarità dell’evento, tale, da essere immortalato nella storia del Carnevale di Termini Imerese fu essenzialmente l’ottima qualità dei carri in sfilata, basti pensare che sarebbero stati fatti venire per il montaggio e la rifinitura dei carri, tecnici esterni; altro punto forte fu l’apparato coreografico con l’aggiunta di gruppi, serate danzanti, orchestrine, distribuzione di oggetti e cotillon da parte del Comitato e giochi d’artificio; cui si aggiunse l’imponente afflusso di turisti anche stranieri, giunti per l’occasione da ogni parte delle province vicine. Questa in sintesi era relazione sul Carnevale cittadino di Termini Imerese, datata 1963 a firma del Presidente del Comitato, il Sindaco dott. Francesco Candioto e del Presidente dell’Associazione Turistica, Cav. Vito Salvo, Console di Spagna. La peculiarità di questa relazione che ha catturato la mia attenzione, è il breve testo inserito nel corpo di questo rapporto e che riporto qui di seguito ai lettori: …“le prestigiose maschere del “Nannu e Nanna” nacquero nella seconda metà del secolo scorso ad opera di un appassionato creatore di maschere carnevalesche, il quale, dopo avere ultimate due teste di vecchi, rivolgendosi alla moglie ed ai parenti che curiosavano, esclamò: “Taliati parinu u Nannu ca’ Nanna”. L’episodio si diffuse di bocca in bocca e le due maschere si imposero come simbolo di questa ricorrenza termitana”… La tradizione testé riferita ci induce a sottolineare che le due figure dei Nanni preesistevano alla realizzazione delle due maschere che si elevano a simbolo del Carnevale di Termini Imerese. In realtà si fece una sorta di gemellaggio tra Viareggio e Termini Imerese. I maestri viareggini giunti a Termini Imerese vollero che le nostre maestranze si cimentassero in un lavoro di prova, al fine di saggiarne le capacità. Tra i vari cartapestai scelsero i più versatili ed estrosi che collaborarono poi alla realizzazione di un imponente carro dove campeggiava la sensuale figura di Marilyn Monroe. Tra gli artefici di questa vera e propria opera d’arte vogliamo qui ricordare il maestro Salvatore Contino, successivamente meglio noto con lo pseudonimo di Tinosa che ho avuto il piacere di conoscere e che mi ha dato ragguagli di prima mano sul mitico Carnevale del 1963. I maestri cartapestai di Viareggio, visto il buon esito della collaborazione con i colleghi Termitani, proposero loro una serie di stage nella Capitale indiscussa del Carnevale Italiano. Ma ciò purtroppo non ebbe seguito.

Si ringrazia per la foto il Cav. Antonino Indovina

Giuseppe Longo

Carnevale di Palermo 

Teatro Bellini  (Piazza Bellini 1)

Ponzio Valguarnera dei marchesi di Santa Lucia, nel 1676, cedeva in affitto un magaseno del suo palazzo, situato nel piano del Palazzo Pretorio, per “farsi la comedij”. E proprio qui (piazza Bellini) sorse il teatro “dei Travaglini” o “di Travaglino” (dal nome di una maschera popolare palermitana).
Quando la corte napoletana si trasferì a Palermo, durante la rivoluzione del 1799, la regina Maria Carolina ne divenne assidua frequentatrice; al punto che, in suo onore, divenne Real Teatro Carolino,
L’inaugurazione avvenne il 12 gennaio 1809 con una grande serata di gala in onore del re Ferdinando di Borbone.  Vi trionfarono le opere di Rossini, Donizetti, Mozart e Bellini.
Nel 1837, i marchesi Valguarnera vendettero tutto l’immobile ad Andrea Bignone. Nel 1860 – anno in cui fu installato l’impianto di illuminazione a gas – il teatro venne dedicato al grande musicista catanese Vincenzo Bellini.

Dal 1907, il Bellini continuò a funzionare soltanto come sala cinematografica o per spettacoli di varietà. Un devastante incendio, il 14 marzo 1964, chiuse definitivamente il teatro, fino alla recente riapertura per intervento del Teatro Biondo Stabile di Palermo.






Carnevale di Palermo 

Teatro S. Cecilia   
Piazzetta Santa Cecilia (vicino piazza Rivoluzione)

Ubicato nell'omonima piazzetta, il teatro venne fondato nel 1692 dall'Unione dei Musici, una corporazione che univa musicisti ed uomini dello spettacolo. Per un certo periodo di tempo ospitò al suo interno anche un museo delle cere. Prima della costruzione dei teatri Politeama, Massimo e Biondo, costruiti tutti tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, era il teatro più importante della città.

Carnevale di Palermo 

C' ERA UNA VOLTA CARNEVALE 

Dall' epifania alla Quaresima, nell' intrigante Palermo del Settecento era sempre carnevale. La grande sarabanda era annunciata da ragazzi che correvano per la città suonando un corno, il capitano giustiziere proclamava l' inizio delle feste. Il marchese di Villabianca, uso a ben più nobili argomenti, elenca i giochi popolari con lo stile di un viaggiatore sbarcato in lontane contrade: dedica alla materia «serioso studio e faticosa applicazione», è solerte nell' indagare ogni gioco ed è ostacolato dall' ignoranza di giocatori sempre rumorosi, che non hanno idea della mole d' erudizione che minaccia di abbattersi sul loro passatempo. Il marchese si spazientisce, consegna alle pagine il suo disappunto. Ma l' elenco dei Giuochi volgari e popolareschi da lui compilato ci permette di intravedere l' ombra del carnevale di qualche secolo fa. Le maschere erano ufficialmente entrate in città nel 1616, quando il viceré duca di Ossuna aveva pubblicato un bando e ordinato che l' ultimo giorno di carnevale tutti dovessero travestirsi. Anche le carrozze avevano obbedito mascherandosi con «stravagantissime vesti», mentre dal Palazzo uscivano quattro carri colmi d' ogni ben di dio. Vino e carne fresca, formaggi e prosciutti scortati dalle maschere si fermavano sotto l' Arcivescovado, dove i carri venivano assaltati e saccheggiati dalla folla: era l' antenata della Cuccagna, che sino ad anni non troppo lontani era sempre allestita in ogni festa di paese. Nel Settecento al lunghissimo carnevale partecipavano i vari rioni cittadini, e una folla di improvvisati attori si esibiva in buffe pantomime. Tutti volevano recitare: lo stizzito Villabianca annota che i popolani si davano a folli spese per sembrare signori. Ma poi non resistevano, anche se messi in ghingheri facilmente i loro giochi perdevano l' innocenza scivolando nell' irrisione e nell' osceno. Si fingevano combattimenti, senza troppo rispetto si mettevano in burla antiche consuetudini signorili. La nobiliare giostra dell' anello, ad esempio- in origine un torneo dove i cavalieri cercavano di incoccare un anello, pendulo da un' asta - si trasformava nel gioco della papera. Dall' asta ora pendevano oche e altri poco nobili volatili, qualche volta vitelli e maiali; perduto ogni sembiante eroico l' assalto diventava ridicolo, alla fine le bestie venivano cucinate nelle osterie e innaffiate con fiumi di vino. Era stato proibito perché spesso finiva con morti e feriti, Villabianca lo cataloga fra quei «giochi guerrieri» buoni per dimostrare il naturale genio bellicoso della nazione siciliana: il marchese aveva ragione anche oltre le sue intenzioni, visto che in Sicilia la più scelta nobiltà esauriva i suoi spiriti guerrieri in torneie parate.E ci prendeva tanto gusto da suscitare commenti non sempre benevoli. «Per guerra è poco, per gioco è assai» aveva detto qualche forestiero alla vista di giostre e caroselli dove cavalieri armati, rivestiti da capo a piedi con pesanti armature, si davano dei gran colpi di lancia e ogni tanto persino ne morivano. Frai giochi più bellicosi c' era la «guerra dei lazzari», con due squadre di plebei armati di cartone colore acciaio che si affrontavano in campo aperto. Anche i duelli erano trasformati in beffa. Due popolani vestiti alla spagnola, preceduti da compari mascherati da donne, chiamavanoa raccolta gli spettatori al suono del tamburo. Una volta attorniati dagli spettatori, mettevano in ridicolo i duelli tanto diffusi fra i signori: fingevano d' ingelosirsi per le moine delle donne, cominciavano a combattere fra gli schiamazzi, finivano chiedendo un obolo da spendere subito in qualche bettola. Uno dei più «soddisfacenti e divertimentosi» giochi guerrieri era la battaglia delle arance, con frutti selvatici che venivano usati come proiettili da due squadre di combattenti. Ci si sfidava nei luoghi aperti, e alla «battaglia aranciale» partecipavano anche i nobili che rischiavano d' essere trattati come bersagli. Qualcosa di simile era accaduto al padre del nostro marchese: il quale per difendersi aveva sguainato la spada, ferendo però un soldato accorso in suo aiuto e per questo aveva dovuto pagargli a vita una pensione di nove onze l' anno. A parte i giochi guerrieri, quelli che a Palermo andavano per la maggiore erano i giochi d' azzardo. Ufficialmente proibiti ma da tutti praticati, vivevano la loro stagione di gloria nei giorni di carnevale. Uno dei più popolari era il «masculu o fimmina», vietato sin dal 1534 con apposito severissimo bando. Era una specie di "totonascituro" che scommetteva sul sesso dei futuri neonati, con tanto di allibratori: la casa della partoriente era circondata, in attesa del grido liberatorio "masculu" o "fimmina" capitava che si truccasse il risultato arrivando allo scambio dei neonati. La Palermo spensierata di metà Settecento sembra occupata solo a divertirsi, ogni strada è un palcoscenico. La lista delle maschere buffe è lunga, a cominciare dai "balla virticchi" che sembrano spuntare da ogni angolo: sono ragazzi, mascherati da pigmei dalla testa enorme. Le donne non vengono risparmiate. Le «mamme Lucie» sono plebei travestiti da donne pubbliche, avanzano preceduti dal suono dei tamburelli; la Tubiana, la Fasola e la Capona mettono in scena donne anziane, che ballano per strada fra i lazzi degli spettatori. Carnevale si conclude con l' impiccagione del Nannu a piazza Vigliena. Il corteo dei Bianchi - cioè maschere che fanno il verso alla nobile compagnia che conduceva al patibolo i condannati - scorta al supplizio un fantoccio, regolarmente impiccato. Carnevale era così terminato, ma era difficile resistere ai quaranta giorni di «malinconico luttuoso vivere» della Quaresima. Ed ecco il «serramento della vecchia», che si metteva in scena nella piazza di Ballarò. Impersonata da una donna anziana, la Quaresima era catturata e portata in giudizio su un carro tirato da buoi. Infine era giustiziata. Carnevale si concludeva nelle osterie che, scrive il marchese di Villabianca per una volta irriverente, «dei plebei son le gran chiese».

AMELIA CRISANTINO

Carnevale di Palermo 

L' ANTENATO DEI TEATRI SANTA CECILIA, DA SCARLATTI AL JAZZ


Per costruirlo, nel 1692, ci volle una colletta di 160 onze, per acquistarlo, tre secoli dopo, la cifra salì a un miliardo e seicentocinquanta milioni di lire. Ma non lo dite agli eredi di Baldassare Gonzales, un suonatore di cornetta che agli inizi di questa avventura si indebitò fino a perdere tutto. Il Real teatro Santa Cecilia è un romanzo che racconta quattro secoli di storia, fasti e miserie, terremoti e gran gala, melodramma e feste da ballo: basti dire che se alla fine del Seicento Alessandro Scarlatti suonò lì il suo clavicembalo, nel 1865 il sindaco Starrabba, marchese di Rudinì, per farlo uscire dalle secche della crisi vi organizzò il primo cafè chantant palermitano. Ma non solo: qualche anno dopo il teatro vivrà addirittura l' esperienza di museo delle cere. Adesso, invece, il "nonno" dei teatri palermitani diventa la Casa del jazz palermitano, grazie all' affidamento della Regione, proprietaria dell' immobile, al Brass Group. È l' atto finale di un recupero che sembrava impossibile fino a ventitré anni fa, era il 1987, quando il regista Beno Mazzone di colpo risvegliò il Santa Cecilia da un sonno che durava da ottant' anni. Ma bisogna tuffarsi nella nebbie di un lontanissimo 1692 per vedere nascere questo teatro sotto l' insegna dell' Unione dei musici, che già dieci anni prima avevano cominciato a tassarsi con un tarì a testa, e del viceré Giovanni Francesco Pacheco, duca di Uzeda e finanziatore dell' impresa. Viene fuori un teatro all' italiana, con una sala a ferro di cavallo capace di circa duecento posti a sedere più quattro ordini di palchi. Il sipario si alza il 28 agosto del 1693, dopo solo un anno dall' inizio dei lavori, con la rappresentazione della tragedia sacra "L' innocenza penitente" di Vincenzo Gattino, opera dedicata a Santa Rosalia con musiche di Ignazio Pulici. Come riporta il volume "Il teatro di prosa a Palermo" di Nino Aquilae Lino Piscopo, la sala era illuminata dal lampadario centrale e da cinquanta torce (la normativa anti incendio era ancora di là da venire) mentre ai palchi si accedeva attraverso due scale a chiocciola: il palco del viceré era tre volte più grande di tutti gli altri ed era decorato da uno scudo. In platea si sedeva su panche di legno e vi trovavano posto 242 spettatori. Nei pressi dell' ingresso principale c' era un vano destinato ai "bollittinari", i venditori di biglietti, e inoltre il teatro era fornito di sei fornelli affinché i cavalieri potessero farsi una cioccolata. Ma a questo punto subentra la maledizione che ha perseguitatoa lungo i teatri antichi palermitani, che di volta in volta si è manifestata sotto forma di incendio o di bombardamenti. Stavolta si tratta del terremoto che nel 1726 costringe il teatro a restare chiuso per circa dieci anni. Nel frattempo, però, non lontano dalla Fieravecchia, ha aperto i battenti un altro teatro musicale, il Santa Lucia, l' odierno teatro Bellini, che diventa subito un accanito concorrente del Santa Cecilia. Una concorrenza non sempre leale. Già perché se l' impresario del Santa Cecilia Andrea Toti cercò di bloccare il nuovo teatro chiedendo che il carnevale venisse festeggiato solo nella sua sala, adducendo addirittura che il nuovo arrivato era soggetto al rischio di un incendio (quasi una profezia), i rivali, all' inizio dell' Ottocento, riuscirono ad ottenere che il Santa Cecilia restasse chiuso ogni volta che veniva presentata una nuova opera. E così, nel 1798, dovette intervenire un Real Dispaccio a dirimere la lite, come spiega Gloria Martellucci ne "Il real teatro Bellini", stabilendo che i due spazi avevano pari dignità: «i due teatri vadano del pari e nessuno di essi vantar possa e spiegare sopra dell' altro preminenza». Il vero motivo della rivalità, manco a dirlo, era il denaro, ovvero il business dei veglioni di carnevale che riempiva le casse. Era il viceré,e poi il Luogotenente generale, a stabilire dove dovessero svolgersi le feste in maschera, in base a criteri di funzionalità, capienza e sicurezza. Nel 1787 col contributo di un altro viceré, Francesco D' Aquino, principe di Caramaico, viene restaurato e rinnovato sempre dall' Unione dei Musici. La spesa si aggira sui tremila scudi. Riapre il sipario il 2 giugno dello stesso anno con l' opera "Ariarate" dramma per musica del maestro Angelo Tarchi, compositore napoletano. Nel 1813 il catanese Giuseppe Conti crea un meccanismo che consente di abbassare il palcoscenico al livello della platea ampliando così lo spazio a disposizione per balli e feste, motori dell' economia del teatro. Ma la crisi è già iniziata, e come detto l' opera viene rimpiazzata dai lustrini del café chantant. L' ultimo sussulto è datato 1887 quando la nobiltà palermitana organizzò una serata di beneficenza a favore delle famiglie dei militari caduti in Eritrea nell' imboscata tesa dal ras Alula. I morti furono più di quattrocento. Il teatro viene illuminato sfarzosamente come negli anni d' oro, e la "crema" palermitana, tra cui Giulia Whitaker Scalia, si esibisce in canti.È una sera di madame ingioiellate, una passerella di aristocrazia che schiera i più bei nomi dell' alta società palermitana di fine Ottocento, ma, inevitabilmente, è il canto del cigno. Nel 1888 il teatro chiude: viene acquistato per trentamila lire dalla società Ferro & metalli che lo sventra, lo smonta pezzo per pezzo, lasciando solo le mura perimetrali, lo trasforma in deposita di ferramenta. Nel 1954 lo acquista la famiglia Guaiana che lo utilizza come emporio fino al 1978. E siamo ai giorni nostri, all' intuizione di Beno Mazzone che quella nobile carcassa di teatro possa ancora respirare. Intuizione condivisa da una ricerca del Dipartimento di storia e progetto nell' architettura, diretta da Nicola Giuliano Leone, secondo la quale il Santa Cecilia, così coem gli altri teatri storici palermitani, può tornare a funzionare. Mazzone, per tre sole tre sere, riaccende i riflettori sul Santa Cecilia mettendovi in scena "Bobok" di Dostoevskij, con Mario Scaccia. È la prova che Palermo può riconquistare il suo vecchio teatro. La Regione raccoglie la sfida e l' anno dopo lo acquista dai Guaiana per un miliardo e 650 milioni di lire. Si affacciano varie ipotesi sulla destinazione d' uso, tra cui quella, contestatissima, di museo delle carrozze. Alla fine vince il jazz, ma non solo. La nuova sede del Brass si aprirà a tutte le musiche contemporanee, ma anche ai registi palermitani "senza tetto", da Franco Maresco a Emma Dante. E perché no, al grande convitato di pietra, Alessandro Scarlatti, a cui sarà dedicato un festival, ripescando quello ideato anni fa da Roberto Pagano. Si completa così un percorso iniziato una quindicina d' anni fa, e che poco per volta ha visto le riaperture dei teatri Garibaldi, Massimo, Finocchiaro e Bellini. Rinascere dalle rovine è possibile.

MARIO DI CARO